Recensione
Tiziano Tussi, «Il Protagora», 07/08/2020

Saggio sul Capitale

Lev Trockij, Saggio sul Capitale di Marx, ObarraO edizioni, Milano, 2019, pp. 59.

La pubblicazione in italiano di The living thoughts of Karl Marx, di Lev Trockij, pubblicato per la prima volta nel 1940, l’anno della sua uccisione a Città del Messico, ad opera di un agente staliniano, Ramon Mercader, è veramente una bella chicca del pensiero del rivoluzionario russo. Sessanta pagine, circa, per questa edizione della casa editrice ObarraO, ci rende tutto lo spessore del pensiero critico di Trockij che si misura con l’opera fondamentale di Marx. L’estensore dello scritto scorre i punti essenziali dell’opera del grande filosofo tedesco: a p. 11 si sottolinea che “il caos (capitalistico) non è affatto caos, che in un certo modo esso viene regolato automaticamente”. Il capitalismo, visto nella sua globalità, sembra sempre senza fiato, caotico, ma è proprio la sua “caoticità” che lo rende tale, cioè capitalisticamente vivo. Due pagine dopo si mette in relazione l’opera del lavoro umano con la creazione di valore nelle merci. Un’analisi che avrebbe bisogno, ora, di approfondimento, dato che le macchine, i robot, portano notevoli variazioni in questa equazione. Ma all’epoca dello scritto in oggetto, 1940, tali variabili non erano nella possibilità scientifica dei critici del capitale, ancora di meno lo erano al tempo dell’estensione e della pubblicazione del Capitale, I° libro 1867, anche se le parti sulla meccanizzazione sono per altro rilevanti. Più preciso e temporalmente ancora totalmente sostenibile l’idea che il capitalismo cattivo, delinquenziale si potrebbe dire, scaccia il capitalismo buono, quello che il pensiero liberalsocialista ha sempre proposto come possibile: un capitalismo virtuoso. Già all’epoca di Trockij, ed ancora prima, si poteva notare tale relazione assassina. Così come quella monetaria che afferma che in epoche confuse, ed il capitalismo, abbiamo detto, pare sempre ben vivere confuso in epoche confuse, la moneta cattiva scaccia quella buona. La cosiddetta legge di Gresham, 1551, ben si addice a tutti i tempi. Basti solo pensare alla decadenza dell’Impero romano. Scrive Trockij (p. 15) “Pertanto, dall’onesta, democratica, progressiva concorrenza emerge irrevocabilmente il nocivo, parassitario, reazionario monopolio”. E prosegue poco dopo con la necessità, per questo secondo cattivo capitalismo, del fascismo: un capitalismo con regole certe per la concorrenza necessita di democrazia mentre “…la disintegrazione del capitale monopolistico è Fascismo.” (p. 16) Ma l’aspetto monopolistico negli USA degli anni ’40, alla faccia delle buone intenzioni del New Deal, è una tendenza che aspira a mettere assieme le due facce dello stesso: un capitalismo buono, concorrenziale, con il capitalismo cattivo, monopolistico: “...nei prossimi 25 anni i monopolisti avranno accorpato in sé l’intera economia del paese...” (p. 18) con l’ovvia conseguenza della proletarizzazione di spezzoni sempre più ampi di società. Questo naturalmente porta a rivendicazioni sulla “cattiva sorte” sociale e la ricerca di un capro espiatorio, apertura di una strada che porta alla necessità di un pensiero di rivalsa totale, ergo mentalità fascista. Eccone un risultato a p. 25: “La disintegrazione capitalistica – nel senso che le abbiamo addebitato, ndr – ha fatto emergere un’intera generazione di giovani che non hanno mai trovato lavoro e non hanno speranza di trovarne. Questa nuova sottoclasse, tra il proletariato ed il semiproletariato, è costretta a vivere a spese della società”. Trockij prende di mira gli Usa degli anni ’30, ma pare di leggere qualcosa che ben si riferisce ai nostri tempi. I NEET (Neither in Employment nor in Education or Training, in pratica né lavoro né studio), secondo dati più o meno convergenti, interessano, da noi, circa un quarto della popolazione giovanile, sino ai 30 anni di età. Sparisce anche l’indipendenza di spezzoni di classe. La dipendenza dalla sommità capitalistica è sempre più impressionante: “...lo sviluppo del capitalismo ha stimolato in maniera considerevole la crescita dell’esercito dei tecnici, degli amministratori, dei funzionari, degli impiegati, degli avvocati, dei medici … la cosiddetta ‘nuova classe media’. Ma questo strato … ha poco in comune con l’antica classe media che, possedendo i propri mezzi di produzione, aveva una tangibile garanzia d’indipendenza economica. La ‘nuova classe media’ dipende dai capitalisti più direttamente che non gli operai stessi” (p. 26). Un ulteriore passaggio esplicativo si ha nella sottolineatura che il New Deal, che Trockij accredita solo a nazioni ricche, non è stato altro che un indebitamento spropositato dello stato per rilanciare l’economia, oggi si direbbe in debito, sforando il rapporto deficit-Pil, che l’Europa dovrebbe imporre con percentuali virtuose a tutti gli Stati europei, ma che ogni Paese gestisce come e meglio che può. “Ma il New Deal stesso è stato possibile solo grazie all’incredibile ricchezza accumulata dalle precedenti generazioni. Soltanto una nazione ricchissima poteva concedersi una politica tanto esagerata” (p. 35). Ecco perché, una decina di pagine dopo, Trockij ricorda che Marx aveva affermato che il comunismo avrebbe dovuto realizzarsi in nazioni ricche, altrimenti tutta la fatica profusa, cioè il comunismo realizzato in Paesi arretrati, sarebbe stata vana. La questione è complessa: Marx ha infatti pensato ai paesi ricchi, Germania in testa, per lo schema classico comunista – totale espansione capitalistica e rivoluzione borghese, rivoluzione proletaria, dittatura del proletariato, scomparsa dello Stato, libera società dei produttori associati – ma ha anche scritto sulla possibilità di saltare alcune fasi di questo schema e passare, ad esempio, dalla comunità di villaggio russa al comunismo, questo in alcuni testi e frammenti del suo immane lavoro. Trockij aveva in mente, naturalmente ciò che era accaduto in Russia e che aveva portato, sempre al momento dello scritto, 1940, al periodo staliniano. Trockij vede un avvenire luminoso per gli USA, sbagliando tragicamente profezia, dato che il Paese più ricco al mondo, che faceva concorrenza oramai da tempo al capitalismo coloniale inglese, gli pareva il luogo dell’avvenire per il marxismo del futuro, non tanto lontano: “Anche in questo l’America, con pochi lunghissimi balzi, raggiungerà l’Europa e la distanzierà” (p. 50). “…Marx diventerà il mentore dei progrediti lavoratori americani” (p. 51). Un esempio della pochezza europea risiede in quello che Trockij chiama “l’epilettica ideologia di Hitler [che] è soltanto un’immagine riflessa dell’epilessia del capitalismo tedesco” (p. 52). Le contraddizioni tra gli stati saranno spazzate via dalla lotta dei lavoratori ed in Europa si instaurerà “…l’Unione Socialista degli stati in Europa e in altre parti del mondo” (p. 59). Una sorta di Europa unita dal socialismo e dalla libertà dell’uomo sull’uomo. Come augurio appare molto bello ed eticamente pregnante. Ma poi la storia è andata, va, in altro e più complesso e complicato modo di essere. Resta la virtuosa stimolazione di Trockij che analizzando lo scritto di Marx crede ancora nell’uomo e nella sua capacità e volontà di liberazione.