Recensione
Luigi Gorini, Giornale di Brescia, 17/04/2010

Quando la Cina «sembrava» vicina

Per il «Grande Timoniere» era giunto il tempo del tramonto. La «Rivoluzione Culturale» era finita con il misterioso incidente aereo del 1971 in cui perse la vita Lin Biao, suo principale artefice. Al comando era tornata la «Vecchia guardia» e in auge l'eterno rivale Deng Xiaoping. La Cina e il Partito erano salvi, non lo «spirito rivoluzionario», mantenuto in vita dalla «Banda dei quattro» capeggiata da sua moglie Jiang Qing. Per controbilanciare il potere della Vecchia guardia, a lei, negli ultimi anni, Mao aveva affidato la gestione delle campagne di persuasione di massa, vere e proprie operazioni di ipnosi collettiva, come quella scatenata nei primi sei mesi del 1974 e chiamata «Pilin Pikong» (ossia «Critica a Lin Biao e Confucio»). Ed è proprio nel pieno di quella campagna che il gruppo di intellettuali francesi della rivista «Tel Quel» viene invitato a visitare il Paese. Tra loro c'è Roland Barthes (1915-1980), semiologo, critico letterario, saggista, uno dei grandi nomi dello strutturalismo, che registra, su tre quaderni, appunti e impressioni di quell'esperienza. Ora O barra O pubblica I carnet del viaggio in Cina riproponendo al lettore italiano le impressioni che il grande semiologo raccolse durante il soggiorno. Il gruppo viene preso in consegna all'arrivo a Pechino, dai funzionari della Luxingshe, l'agenzia di viaggio statale, e sottoposto ad un massacrante programma di «indottrinamento» che terminerà soltanto alla sala imbarchi dell'aeroporto: in mezzo tre settimane di incontri, dibattiti, visite a fabbriche, villaggi, scuole, quartieri e decine di incontri con persone che ripetono sempre lo stesso ritornello che Lin Biao era come Confucio: un reazionario travestito da rivoluzionario. Ma mai un «cinese vero». Attorno al gruppo c'è sempre un cordone sanitario di funzionari che impedisce il contatto. Perfino in treno: «Siamo davvero rinchiusi in questo vagone speciale: nemmeno il diritto di prendersi una birra al vagone ristorante, ce la portano; e dobbiamo farci aprire il cesso ogni volta che vogliamo pisciare». E tutto attorno un mondo grigio, uniforme, a cominciare dall'abbigliamento, dal taglio dei capelli, dalla ripetitività dei discorsi, un mondo verso il quale, anche nella rapidità delle note, traspare nell'intellettuale francese un senso di profonda delusione e l'amarezza del disincanto: «Allo stato attuale del viaggio niente differenzia la Cina da uno stato staliniano». E seppure, per loro natura, i «carnet» siano soggetti ai limiti della frammentarietà, la freschezza dello schizzo dona alla lettura quel senso di «presa istantanea», a volte più illuminante di un saggio. Una lettura estremamente suggestiva sull'universo che in quegli anni migliaia di giovani europei idolatravano, vittime di una cortina fumogena che nemmeno chi poteva visitare la Cina maoista aveva modo di penetrare, mentre, dopo una faticosa giornata di slogan «la comitiva dei clienti dell'albergo rientra sotto la pioggia attraverso i giardini; sventurati ridotti alla sera a uno spettacolo da oratorio che finisce alle nove e mezza!».