Recensione
Roberto Matteucci, Sololibri.net, 15/10/2012

Una storia vecchia come la pioggia

Ero un figlio della giungla e sono cresciuto nella giungla, fino all’età adulta.” (Pag. 76) Nel 2011 la Thailandia fu colpita da monsoni terrificanti: la pioggia scese per giorni e giorni, tutto il nord fu inondato, nelle pianure si formarono dei torrenti d’acqua, le piene arrivarono al mare e raggiunsero Bangkok, tanto che la città rischiava di essere sommersa. Il governo decise l’assurdo: costruire delle barriere per salvare il centro della città. La fiumana saltò il centro, ma invase tutta la periferia abitata da milioni di persone. Le strade erano dei torrenti, la gente si muoveva in barca lunghe le strade. Salvo piccole lamentele, la popolazione accettò la maledizione pur di salvare i quartieri buoni della capitale. Andiamo indietro nel tempo. Il romanzo di Saneh Sangsuk, Una Storia vecchia come la pioggia (O barra O Edizioni, 2006) è ambientato a Prek Nam Deng nel 1977, anno in cui la Thailandia fu colpita da un’altra terribile inondazione: “La gente aveva trasferito buoi e maiali verso le colline più alte, aveva ormeggiato le barche alle soglie delle abitazioni e aveva approfittato dell’alluvione per dedicarsi alla pesca nei propri cortili […]” (Pag. 5) Il fine dello scrittore è più profondo: parte da quell’età per riportarci ancora più indietro, raccontandoci un frammento di vita contadina e ancestrale ai confini della mitica foresta thailandese, dove spiriti e fantasmi vivono in contatto con gli abitanti. Prek Nam Deng è un paese povero: “ […] gli abitanti di Prek Nam Deng erano contadini rovinati ai limiti della carestia […]” (Pag. 11). L’anno è descritto indirettamente, attraverso diversi personaggi thailandesi famosi dell’epoca (attrici, campioni di thai boxe, moda, scrittrici) per poi trasportarci dolcemente al villaggio, dove l’unico ad avere possibilità di studio era il figlio unico del grande proprietario di bestiame. Nonostante la povertà, i cittadini del paese godevano della comunità e tutte le sere si radunavano per parlare e per stare insieme. Con una bellissima immagine lo scrittore ci racconta quei momenti utilizzando una fotografia ferma, statica, in cui li trasforma in attori su un palcoscenico: “Gli adulti erano tutti maschi, quasi tutti di età avanzata, solo qualcuno era ancora giovane, e non c’era nemmeno una donna. […] discutevano di tutto e di niente, quasi imitando un’opera teatrale, mentre in realtà erano le opere teatrali che imitavano loro.” (Pag. 14) La popolazione della campagna non è avvezza come gli abitanti di Bangkok: loro ancora seguono il tempo della natura, la tradizione degli antenati, dei padri dei padri, degli animali. Come nei libri di Pira Sudham, l’accettazione della natura, del loro karma rende impossibile la fuga, il loro destino è segnato: “ […] cominciavano dopo che le piogge avevano sgombrato il cielo e si concludevano, quando le spighe di riso s’erano imbiondite al punto giusto per la mietitura. “ (Pag. 14) “[…] fosse sballottato qua e là dal vento del destino […]” (Pag. 8) Fra la popolazione emerge il monaco buddista Tian, la voce portante del romanzo. Anziano, rappresenta la continuità, l’esperienza, il modello di vita antico. Il monaco Tian ha avuto un’esistenza tempestosa, avventurosa con mille traversie e sofferenze, tutte affrontate con il coraggio adolescenziale, fino ad arrivare alla maturità di un monaco rispettato. Tian è nato nel lontano 1877, ha vissuto l’antico Siam, quando la foresta dominava e gli animali non erano gli unici a viverci. Insieme a loro c’erano gli spiriti, i fantasmi, le anime perse, e i frutti di tanta magia. Essendo il più anziano raccontava il periodo di totale rispetto per la giungla, come ultimo testimone della sua magia essendone stato anche vittima martoriata. Quando era giovane, la città era circondata e inglobata dagli alberi. Emerge sempre la tensione naturista ed ecologista della Thailandia: “La foresta vergine era scomparsa […] quella che un tempo era giungla era stata dissodata e parcellizzata, ricavandone tanti campi […]” (pag. 20) Distruggere la foresta significa annichilire la vita, compresa la tradizione, la cultura, l’anima dei padri e della stessa Thailandia: “La giungla era tutta un chiarore di luna e una calma angosciante, tutti i ricettacoli della foresta vergine di quel luogo nascondevano pericoli e misteri ed erano popolati da strani esseri viventi come da essere soprannaturali […]” (pag. 22) La gente era povera ma allegra e grazie alla foresta erano senza problemi di cibo: si viveva in completa simbiosi e “[…] nessuno si vergognava di essere povero: la giungla offriva ancora di tutto, bastava avere riso da mangiare e si poteva dire che ci sfamavamo senza problemi.” (Pag. 52?) Ma lo scrittore non ci mostra un naturalismo intellettualistico e modaiolo: è consapevole dell’importanza della convivenza, ma rimane estraneo alla volontà sterminatrice per costruire e allargare le città. Continuando così prenderà sopravvento e un pezzo di vita thailandese potrebbe scomparire: “Il fatto è che questo paese è proprio cambiato, la gente è cambiata, e anche il tempo che passa è cambiato. Un tempo qui era tutto coperto dalla foresta vergine, popolata d’elefanti, di gaur, di muntjac e di daini, di cinghiali, di scimmie, d’orsi e tigri e serpenti, e c’erano anche grandi mandrie di bufali selvatici e di banteng, i buoi della foresta. […] C’erano addirittura tapiri, pavoni, aironi grandi e maestosi, c’era ogni genere di piante tropicali, di rampicanti e di bambù.” (Pag. 44) Il monaco è descritto umanamente: ha un saio rotto, ricoperto di strappi e rattoppi. È un uomo pratico, con i suoi difetti ma benvoluto dagli abitanti, perché poteva esprimere il senso di giustizia senza conoscere la legge, ricomponendo le liti fra gli abitanti in modo soddisfacente per tutti. Eppure era un tipo bizzarro, si credeva che avesse tutti i denti, nonostante l’età, perché beveva ogni giorno un bicchiere della sua urina. Passata l’introduzione, il romanzo si addentra nei racconti della sua vita, narrati in una notte ai bambini del villaggio. Inizia un viaggio di malinconica nostalgia, nonostante le tante difficoltà trascorse, perché, anche se il mondo aveva una brutalità maggiore, c’erano leggi naturali dettate dai canoni della libertà e del rispetto. Pure gli animali avevano educazione e riguardo, come nel dolce episodio della vecchia elefantessa, narrata dallo scrittore con soave poesia. L’animale si abbandona nei suoi ricordi. Dentro ha una memoria, un dolore, un pensiero struggente, come il ricordo dei figli fuggiti dal gruppo, abbandonandola. Il monaco la ricorda, perché fu l’elefantessa a salvarlo da galoppo degli altri pachidermi. Fra i due, attraverso le leggi interiori della foresta, ci fu un collegamento mentale. Il rapporto di Tian bambino con il duro padre Djampa fu sempre molto difficile. Lui era un cacciatore e la madre un’agricoltrice. La foresta è sempre vittima dei coltivatori, che abbattono le piante per avere terreno per la coltivazione, perciò simbolicamente nel figlio si apre un dilemma: o il cacciatore come voleva il padre oppure il risicoltore come l’amata madre: “ […] e mi insegnò a rispettare i geni della giungla e dei monti e m’insegnò quello che è lecito e quello che è vietato fare nella foresta.” (Pag. 70) Il dubbio fu forte, soprattutto vissuto in contrasto con il genitore figura dominante. All’epoca del bambino Tian, la foresta era minacciata da una terribile magia: una terrificante e immensa tigre girava indisturbata. La tigre è la raffigurazione simbolica della protezione della giungla e la sua ferocia è la velleità di difendersi a tutti i costi dal minaccioso avanzare: “C’era un pericolo a ogni passo. La magia della giungla è intensa e impossibile da capire. Vi si aggiravano fantasmi e altri spiriti maligni. Animali malefici di ogni sorta vanno a caccia di prede.” (Pag. 123) Djampa e la tigre stanno dalla stessa parte, sono i tutori della natura, eppure anche loro saranno costretti allo scontro terrificante. Lo scrittore ci delizia con momenti di azione, nonostante la staticità dell’ambientazione teatrale. La famiglia di Tian ritaglierà uno spazio per la coltivazione del riso, con l’aiuto di dei poveri buffali d’acqua. Il loro esperimento sarà contrastato dall’efferata tigre. Alla staticità subentra l’azione, la caccia, la lotta fra la famiglia di Tian e l’astuzia della tigre, chiamata – vittima di una magia – a presidiare la giungla. La loro colpa era grave, sverginare la foresta con la risaia: “La giungla sembrava dirci: Andatevene, non avete niente da fare qui.” (Pag. 105) La nobiltà della vegetazione e i suoi misteri creavano un potere dominante, una minaccia per gli invasori: “Questo è un luogo nobile e sacro, io punirò voi, gli invasori, in modi così strani che nemmeno v’immaginate.” (Pag. 105) Solo il padre Djampa si rifiutava di lavorare nella risaia e continuava con la sua caccia, perché mai avrebbe intaccato un solo albero. Il romanzo è genuina poesia thailandese. L’anima buddista e nostalgica dello scrittore appartiene alla volontà dell’uomo di rispettare la natura. Questo sentimento rinasce perché la macchina da guerra del finto progresso è inarrestabile e la foresta è vicina alla sua sconfitta definitiva. Neppure la tigre potrebbe combattere in suo aiuto. La magia si deve trasformare in arte. Tutto è magia: “La magia thai è una magia antica, sviluppata e tramandata da molto tempo ed è di un’efficacia spaventosa. […] Perfino la boxe thai ha preso qualcosa dalle pratiche magiche.” (Pag. 43) L’arte tailandese sta combattendo senza paura la sua battaglia a difesa della giungla. Cinema e letteratura sono alleati: insieme sono la terribile tigre. Secondo lo scrittore l’arte è magia, e la spaventosa tigre è mutata in una schiera di artisti inquadrati in custodia della natura. Il tema è quindi attualissimo. Lo scrittore usa frasi lunghissime, quasi senza punteggiatura. Il racconto è vissuto continuamente in un parlare senza soste, per creare la suspense necessaria, perciò la punteggiatura non serve. La sua è pura tradizione orale. Egli ha un confronto con i giovani del villaggio. Un gruppo di figure giovanili ricche di divertimento, di amicizia e spensieratezza accompagnava i vecchi nelle loro serate: “ […] con il quale aveva sguazzato nudo nell’acqua e giocato alla trottola, con il quale aveva fatto alla lotta e si era scambiato pugni e calci quando si detestavano, per ridiventare più amici di prima [… ]” (Pag. 9) La compagnia di giovani nomina la ragazzina Prè Anchan a scrivere i racconti del monaco. La tradizione orale si trasforma in tradizione scritta e nel racconto la lingua si può inceppare, s’ingarbuglia, mostra attenzione al ritmo letterario, al suono. Perciò il racconto è ricco di ripetizioni, pezzi di frasi sono ripetuti più volte e il racconto diventa sonoro: “[… quando due cani si mordevano, correva a separarli con grida stentoree, contrariando così la gente che osservava il combattimento fra i cani […] quando due tori s’incornavano, correva a separarli con grida stentoree, contrariando così la gente che osservava il combattimento fra i tori […]” (Pag. 38) “Chissà dove avevano i nidi […] Chissà dove avevano il nido.” (Pag. 58) “Senza più attendere … battezzò i quattro buoi … Senza più attendere, battezzò il terreno …” (Pag. 87) “Certe volte […] Certe volte […] Certe volte […]” (Pag. 91) “[…] fu uno strano anno. […] Fu un anno strano […] Fu un anno strano […]” (Pag. 95) “La sua schiena era di un biancore ammaliante, la morbida curva delle spalle di un biancore ammaliante, le sue braccia affusolate erano di un biancore ammaliante, ma lei aveva un’aria debole e smagrita per il lavoro in risaia e per la gravidanza.” (Pag. 137)