Recensione
Movida, www.lankelot.eu, 07/05/2009

Che cosa ci fa un morto nell'ascensore

Cinque racconti, tradotti per la prima volta in Italia direttamente dal coreano, senza interposizioni o fratture, annunciano la prosa generosa ed avvolgente di uno dei principali esponenti della nuova generazione di scrittori coreani. Cinque racconti che, nella loro apparente diversità, riuniscono in una sola parola la drammaticità della loro comunanza: la solitudine. Ecco che, in un mondo così lontano, la Corea del Sud, si ripete quella che in tutta evidenza è la conseguenza normale di una civiltà ipertecnologica. L’abbiamo già vissuta, l’abbiamo già osservata in altre terre, in altri tempi, in altre forme. Ne abbiamo assaporato il sapore, ne siamo stati dilaniati. Tutto è cemento, tecnologia. Tutto è grigio. Tutto è assordante, al di fuori. Resta un nucleo silenzioso, tuttavia non ancora spezzato dall’impotenza. La fiducia resta ancorata alla realtà. La speranza resiste, sempre: “avrei dovuto tatuarle EXIT sulla punta della freccia e aggiungere il mio nome sulla sua coscia. Ormai era troppo tardi. Saltai dalla finestra e atterrai sul tetto della casa accanto. Corsi, guardando solo davanti a me. Sentivo il rumore delle tegole che si rompevano sotto i miei piedi” (pag.135).

Il primo racconto, “Che cosa ci fa un morto in ascensore?”, dà il titolo alla raccolta. È una storia di ordinaria follia urbana. In uno di quei giorni in cui sarebbe meglio restare serrati in casa, il nostro è un impiegato che ha un importante progetto da presentare al lavoro. Esce di casa ed è costretto a scendere a piedi le innumerevoli scale di un grattacielo perché l’ascensore è bloccato. Si accorge presto che c’è un uomo incastrato e che non ha portato con sé il cellulare. Pensa di poter trovare subito in strada qualcuno che possa aiutarlo a chiamare un’autoambulanza e la polizia. Non sarà facile. Il mondo non sente, non ha più tempo. Il delirio dell’umanità. Un racconto incredibile.

Il secondo, “Omicidio nello studio fotografico”, si avventura senza retorica nel genere investigativo, in cui le foto sono il pretesto della narrazione e della ricerca. A tratti malinconico, scatta sul finale. La tensione è distillata, lenta, resa trasparente da quelle immagini che si susseguono una dopo l’altra. Ogni foto è un frammento, ogni foto racconta una storia. Ne è stato tratto un film coreano. Non il migliore della raccolta, anche se di sicuro interesse in una visione prospettica.

Il terzo racconto “Il vento soffia”, lo ammetto, mi ha rapita: “Il vento soffia. Il vento soffia. Il vento soffia….Ripeto questa frase cinque volte, guardo il cielo e accendo il computer. Spengo il computer. Lo riaccendo. Lo rispengo. Il tempo passa. Il tempo passa. Il tempo passa. Non riesco a dimenticare quella donna” (pag.63). Un uomo sta al computer; è solo in una stanza che non ha luci. Le ha oscurate, nutrendosi dell’isolamento assoluto. Si occupa di uno strano lavoro ed ha bisogno di aiuto. Lo trova grazie ad un’inserzione su internet. Finalmente ha una compagna. Lavorano entrambi nello stesso ambiente, ma non hanno scambi. È una strana vicenda la loro. In un momento trovano il punto di incontro: iniziano a giocare ai videogames. Il solitario passatempo diventa strumento di comunicazione, tra draghi e cavalieri che combattono. Sono loro a farlo, sono loro a cercare una soluzione di vita normale. Non sarà facile anche in questo caso. L’illusione è un viaggio della mente.

Il quarto racconto, “La lettera”, è la conquista definitiva, l’incarnazione dell’ossessione. È lui che scrive, è lui che narra, Kim Young-ha. Dopo il successo del suo titolo “Ho il diritto di distruggere me stesso”, riceve una lettera e la telefonata di una donna che lo invita a leggerla. Quelle parole narrano di strane storie d’amore e di vampiri, di un’ombra virulenta che scorre sottile tra le righe, ma non è come sembra. Il limbo lo attende. Uno strano stato di sospensione che si avvolge nel mistero. L’immaginazione va oltre lo sguardo, ma la realtà è salda: “tutti i vampiri del mondo sono stati castrati. Il mondo è così pieno di luce. Non sono rimasti posti dove nascondersi. Siamo stati privati della libertà di succhiare il sangue e di ribellarci e in cambio ci è stata donata la disgrazia di vivere in eterno…”(pag.102).

L’ultimo, “EXIT (uscita di emergenza)”, è quello che più si accosta all’eros, trasudando violenza dai pori dilatati di una vita emarginata. Una gioventù spiazzata dal transitare della storia, nell’ambigua oscillazione tra il progresso e la tradizione, finisce per restar deturpata nel desiderio di normalità. Nella sua cruda schiettezza è, alla fine, il racconto che offre una via di fuga dalla realtà, nella sua espressività metaforica.

La folgorazione è stata immediata. Raffinato nell’intreccio, disturbante nel mescolare le carte in una società in pieno sviluppo economico, lucido nel suo voler lasciare un cono d’ombra tra le luci di Seoul, spregiudicato nell’elaborare il paradosso esistenziale dell’uomo moderno coreano, lo scrittore è un’autentica sorpresa. Lo stile è immediato, diretto, d’impatto, senza cedimenti, moderno, nuovo, elegante senza mai perder di vista l’essenzialità delle parole che scendono affilate come una lama.

Vorrei nutrirmene.