Recensione
Daniela Pizzagalli, Il Secolo XIX, 13/02/2014

Intervista a Christian Garcin

Grazie al Festival della narrativa francese, organizzato dall’Ambasciata di Francia e dall’Institut Français Italia e giunto alla quinta edizione, un nutrito stormo di ventiquattro scrittori ha sorvolato le Alpi per planare su quattordici città italiane. La metafora si adatta particolarmente a uno scrittore-viaggiatore come Christian Garcin, che sarà a Genova, alla Feltrinelli Libri e Musica, il 6 febbraio alle 18.00, per presentare il suo romanzo Le notti di Vladivostok (O barra O). Cinquantaquattrenne, romanziere consacrato nel 2012 dal Prix Roger Caillois per il complesso delle sue opere, ha al suo attivo anche reportages di viaggi, soprattutto sull’Estremo Oriente russo, e saggi critici su Kafka e Borges. La spinta all’avventura, la passione per la geografia e la letteratura caratterizzano anche i suoi romanzi, come quest’ultimo, vorticoso, in cui s’incontrano un detective privato cinese alla caccia di un killer russo implicato nella tratta delle prostitute, uno scrittore cinese che ha scritto un romanzo su quel detective (ed è il precedente romanzo di Garcin, Des femmes disparaissent), un francese che è capitato a Vladivostok perché ha sbagliato treno, e la compagna di lui che lo raggiunge mettendo in moto, a sua insaputa, la resa dei conti finale.

D: Nel suo romanzo, Vladivostok assume la connotazione mitica del “topos” letterario, che cosa rappresenta per lei?
R: Ci sono stato nell’estate 2010, durante un viaggio nell’Estremo Oriente russo da cui ho tratto due reportages. Mi sono detto che in un modo o nell’altro avrei dovuto mettere in un romanzo questa città, il cui solo nome mi faceva sognare (si sa che prima di viaggiare nei luoghi, si viaggia nei nomi): la sua realtà è senz’altro al di qua di quello che l’immaginazione lascia supporre, come spesso succede con le città dai nomi tanto evocatori, per esempio Samarcanda. Era grigia, rumorosa, austera, poco seducente, e si dà il caso che io ami le città poco seducenti.

D: Storia, geografia, economia dell’Estremo Oriente russo non hanno segreti per lei, che ne fa lo sfondo del romanzo. Da dove nasce il suo interesse?
R: Il concetto di “in capo al mondo”, benché soggettivo perché la Terra è rotonda e non ha un “capo”, è per me un formidabile richiamo. La Cina, la Patagonia, l’Artico e l’Estremo Oriente russo sono i luoghi del pianeta che mi attirano come un amante. E così la Russia, che ha il vantaggio di aprirsi sulla Yakuzia, la Kamchatka e tutte le altre propaggini dell’Estremo Oriente che potrei raggiungere, se ne avessi voglia (e se il fisico me lo permettesse), a piedi da casa mia, perché per noi europei l’immenso spazio russo si apre direttamente, senza mai lasciare il continente, verso l’Est e il Pacifico, regioni poco conosciute: il Far East russo è molto più misterioso, nella sua immensità, del Far West americano. E’ questo mistero dell’immensità che mi attira verso la Russia, oltre alla storia dolorosa di questo paese e di questi popoli, soprattutto nel XX secolo. Sono stato più volte in quelle regioni, ho disceso il fiume Lena, il fiume Ienissei, sono stato sul bordo dell’Artico. Questo interesse è stato supportato naturalmente da una documentazione geografica, storica e geopolitica, benché io sia lontano dal possedere una conoscenza esaustiva sull’argomento.

D: Inesauribili richiami letterari si susseguono nel romanzo, dichiarati oppure da scoprire, in un gioco molto sofisticato: potremmo rintracciarci una mappa delle sue letture e dei suoi autori?
R: Leggo tanto, e non solo di letteratura, ma di storia, geografia, storia dell’arte, astrofisica. Quanto ai miei autori preferiti, da Kafka a Faulkner, da Thomas Bernhard a Borges, non è detto che se ne trovino tracce nei miei libri, forse i loro fantasmi. A Borges devo senz’altro una costante che si trova nei miei romanzi, cioè una struttura in forma di camera degli echi, o di labirinto narrativo. I miei romanzi sono legati sotterraneamente fra loro, come un arcipelago, in cui ogni romanzo è un'isola collegata alle altre con passerelle, quasi come una proliferazione vegetale di indizi disseminati dall’uno all’altro romanzo, che però possono essere letti indipendentemente uno dall’altro.

D: Infatti i due cinesi di “Le notti di Vladivostok” compaiono nel romanzo precedente, mentre la coppia francese in “L’Embarquement”, e quasi tutti i personaggi minori sono a loro volta comparsi in altri libri. I momenti più emozionanti di questo romanzo peraltro ricco di colpi di scena, sono le rivelazioni che anche gli incontri più fortuiti, gli eventi più insignificanti, riconducono a un disegno sovrastante. Secondo lei il tessuto dell’universo è fatto di casualità o causalità?
R: La risposta, se ce n’è una, oltrepassa le mie capacità, ma posso andare per intuizione: la realtà è senza dubbio più complessa di come è percepita dai sensi. Come dice Ingmar Bergman in “Sonata d’autunno”: “Tutto esiste fianco a fianco e s’interseca.. ci dev’essere un tumulto di realtà che si avvolgono e si srotolano, senza limiti…solo la paura e il buon senso pongono degli ostacoli.” Quello che m’interessa, insomma, è il mistero che guida le nostre vite, mistero che forse è la fonte di ogni attività artistica. Sono queste passerelle, questi punti d’incrocio fra gli individui, le situazioni, i sistemi di pensiero, questi legami invisibili che organizzano le nostre vite senza che noi ce ne rendiamo pienamente conto.

D: Ed è questo mistero che costituisce la struttura della sua narrativa?
R: Sì, nell’ambito della fiction si traduce in una rete di passerelle tra personaggi e situazioni all’interno di uno stesso romanzo e anche tra un romanzo e l’altro, e perché no. anche tra i miei romanzi quelli di altri scrittori: pensare i libri come un sistema di echi, di simmetrie, di legami sotterranei, come dicevo, nutre il meccanismo della fiction, spesso all’insaputa dei personaggi. Per spiegarlo, mi piace usare l’immagine di una nuvola di storni, che in francese si descrive con il bel nome di “murmuration”. Immaginiamo il loro volo fluido e compatto insieme, all’interno di una gabbia di vetro. La nuvola di uccelli in movimento costituisce i motivi della narrativa. La sua direzione, mobile e imprevedibile, è il linguaggio che sostiene l’insieme. La gabbia invisibile è la struttura.

D: I suoi personaggi vengono da culture diverse: generalizzando, possiamo dire che rappresentano la mentalità orientale e quella occidentale, ad esempio nell’atteggiamento di abbandono o di dominio nei confronti della realtà?
R: La questione è ovviamente più ampia e complessa, comunque diciamo che esiste nel pensiero taoista il concetto di “wu-wei”, cioè il “non agire”. Questo non significa essere passivi o amorfi, ma evitare di affrontare troppo brutalmente il principio di realtà, contro il quale potremmo romperci la testa, perché è molto più duro di noi. In effetti spesso l’approccio occidentale consiste in un braccio di ferro con la realtà, per combatterla e tentare di piegarla. Secondo il “wu wei” è meglio lasciare che la realtà ci attraversi, per padroneggiarla meglio. E’ il principio di certe arti marziali, che utilizzano la forza dell’avversario per batterlo. Si tratta insomma di diventare “porosi”, per acuire la percezione delle sfumature. È un po’ come la differenza tra il turista e il viaggiatore: il turista attraversa i luoghi, mentre il viaggiatore si lascia attraversare da loro, accrescendo la sua ricettività e scoprendo a volte orizzonti inaspettati. Questo vale anche per il romanziere, penso alla frase di Maurice Blanchot: “È sempre necessario ricordare al romanziere che non è lui che scrive la sua opera, ma l'opera si va cercando attraverso di lui, e che può essere lucido quanto voglia, ma sarà sempre soggetto a un'esperienza che lo soverchia”. Forse è una frase un po’ troppo mistica, ma rende bene la necessità della disponibilità, della porosità di fronte al mondo, per lasciar che, come diceva Borges, “a un certo momento, qualcosa succeda”.