Recensione
Gilda Berrutti, Planum, 21/02/2014

Come si muove l'altra metà del mondo

La città sradicata al centro del libro di Nausicaa Pezzoni è la città contemporanea in movimento e contemporaneamente è la città vista attraverso gli occhi degli estranei, in cui la distanza dello sguardo permette di cogliere alcuni aspetti non scontati, utili a orientarne lo sviluppo futuro.
Due sono i filoni teorici messi in tensione: la migrazione come condizione della contemporaneità e l’estraneità nella rappresentazione dello spazio urbano, il cui intreccio risulta ancora da esplorare nel campo della disciplina urbanistica, tradizionalmente volta a definire una visione stabile di futuro e costruita, in base alle competenze del planner, per rispondere alle esigenze di chi vive la città.
Chi vive la città oggi è «una popolazione mobile in continua espansione» (p. 32) che interpreta gli spazi urbani sempre più come luoghi di passaggio, in cui si incrociano diverse traiettorie di vita, in cui l’abitare non coincide con la stanzialità. Questa condizione di transitorietà richiama la necessità di un progetto di città appropriato, che non coincide con quello finora codificato dalla nostra disciplina e che può (e deve) partire dal far tesoro dello sguardo decentrato dei migranti, «i soggetti che della nuova città sono ospiti e al contempo artefici della trasformazione» (p. 61).

Nausicaa Pezzoni mette in atto una sperimentazione a Milano, tesa a indagare lo sguardo degli altri, i migranti – una moltitudine errante – rispetto alla città e ai suoi spazi, di cui prova a far emergere le sfumature. Soggetti di riferimento dell’indagine non sono solo le popolazioni migranti alla ricerca di una vita migliore rispetto al paese d’origine, ma anche alcuni studenti stranieri del Politecnico. Al centro, l’immagine della città del primo approdo, quella che si forma nella mente dopo un tempo breve di permanenza, «l’insieme dei luoghi vissuti nella relazione iniziale con la città» (p. 91).
Ci racconta la sua ricerca con un libro ricco, che gioca con registri diversi e sollecita interrogativi che invadono diversi campi: le teorie come teorie in azione, il mix di indagine qualitativa e quantitativa necessario per studiare la città, il ruolo del ricercatore e del professionista riflessivo, la città contemporanea come città accogliente.
L’obiettivo dichiarato è far rientrare nella pianificazione anche elementi non stanziali, adeguandola alla condizione contemporanea in movimento. Di più: dar voce a chi non è chiamato a discutere del futuro della città e, in questa operazione, contribuire al processo per il quale si sente abitante, accolto dalla città che temporaneamente lo ospita.

Il metodo scelto è una libera interpretazione dell’inchiesta di Kevin Lynch, messa in atto dal city designer americano in The image of the city (1960), classico dell’urbanistica per cui Lynch è noto nel mondo. Questo metodo, studiato per includere gli abitanti nei processi di trasformazione urbana, fu ripreso negli anni successivi alla pubblicazione del libro in diverse sperimentazioni progettuali, con una serie di “fraintendimenti” dei quali lo stesso Lynch si stupiva, e che finivano per tradirne lo scopo principale.
Se riprendiamo la considerazione di Lynch a proposito delle ricadute del suo studio: «it is ironic that a study launched with a primary aim of affecting policy seems to have missed its target and hit another one. I remain in hope that the flight is not over» (Lynch 1985, p. 255), possiamo dire che il libro della Pezzoni rappresenta un’altra tappa del volo, aggiornata al 2013, che lancia nuove sfide. Alcune delle quali sono anticipate dall’autrice nelle “aperture” alla fine del libro. Tirando le somme, ciò che di più fortemente lynchiano sembra esserci nel libro è la finalità: un profondo intreccio tra teoria e pratica, l’obiettivo di incidere sulla realtà. Come nelle diverse sperimentazioni portate avanti dal city designer americano (imbevuto del pragmatismo americano, dagli studi alla scuola di Francis W. Parker a Chicago all’apprendistato con Frank L. Wright a Taliesin e poi in Arizona) la teoria è legata a un tentativo di cambiare le cose, di contribuire alla costruzione a più voci della città in cui viviamo.

Una image survey per interpretare il cambiamento
Nausicaa Pezzoni parte dalle orme di Lynch, dal suo scritto del 1960 e dalle riflessioni successive che lo portano a Riconsiderare l’immagine della città (1985) per proporre una interpretazione che le permetta di adeguare il metodo della image survey a quel particolare gruppo di abitanti che sono i migranti al primo approdo.
Il metodo proposto consiste nella traduzione culturale dei cinque elementi dell’immagine ambientale messi a punto da Lynch nella sua ricerca sulla ‘Perceptual form of the city’, costruita su misura per i migranti.
Come fa un estraneo a costruire l’immagine per una città che gli è nuova?
Questo è il punto di partenza della ricerca, a valle di un interrogativo che lo stesso Lynch si era posto nelle Directions for Future Research (Lynch 1960, p. 157) poste in appendice a The image of the city.
L’operazione di traduzione richiede una serie di passaggi.
In primo luogo, alcune voci cambiano nome o significato. I landmarks restano ‘riferimenti’ e assumono un ruolo soprattutto simbolico; i districts diventano ‘luoghi dell’abitare’; i paths (‘percorsi’) sono gli spostamenti abituali per i migranti; i nodes (‘nodi’) sono essenzialmente i luoghi della vita collettiva e perdono la loro connotazione legata alla riconoscibilità della forma fisica; gli edges (‘confini’) sono soprattutto luoghi della città che rimangono oscuri per i migranti, esterni rispetto alla loro esperienza della città.
In secondo luogo, i migranti vengono interpellati a partire da una traccia di intervista che si fonda sui cinque elementi ridefiniti. A partire dalla domanda sugli elementi dell’immagine ambientale viene attivato l’uso del disegno, che è parte integrante dell’intervista.
C’è qui una distinzione essenziale con il metodo lynchiano, in cui il codice a cinque voci, codice grafico con grande valore operativo (Andriello 2002), entra in gioco dopo l’intervista come esito della decodifica che ne fa il ricercatore per arrivare alla definizione dell’immagine pubblica o almeno collettiva della città. L’ipotesi alla base della image survey è, infatti, quella di un quadro mentale comune che molti abitanti portano con sé, che viene fuori attraverso l’orientamento. In questo contesto, i cinque elementi dell’immagine ambientale hanno una validità generale in quanto corrispondono al modo in cui ci si orienta nelle varie culture secondo la letteratura antropologica.
Nella ricerca empirica condotta dalla Pezzoni, il codice a cinque voci risponde ad un obiettivo diverso: fare affiorare gli elementi che esprimono l’esperienza dell’abitare dei migranti.
Il ricercatore ha il ruolo di individuare l’ordine in cui gli elementi sono disegnati e la definizione che ne dà l’intervistato. A partire dalle mappe disegnate durante le interviste il ricercatore è in grado di tirare fuori l’interpretazione della città di Milano, fatta dai migranti, in base ai cinque elementi, e il modo di intendere ciascuno di essi, su cui viene costruita una classificazione originale.

Alle mappe disegnate dai migranti si accompagna un lavoro di osservazione e ascolto attivo sul campo teso a ricostruire i ‘luoghi del primo approdo’, restituiti nel libro con descrizioni dense e con la proposta, accolta dal Centro di aiuto, di progettare una ‘mappa del primo approdo’. Questa mappa, con una legenda costruita su misura per il migrante, risulta essere uno strumento utile sia per l’operatore che si occupa di segnalare ai migranti i diversi servizi nello spazio urbano, sia al migrante per poter godere liberamente dei servizi e degli spazi della città.
Milano è un pretesto per parlare della condizione urbana contemporanea, e il metodo è messo a punto con l’intenzione di testarlo in altre città per le quali l’abitare transitorio sia una questione.
Le cento mappe raccolte nel quarto capitolo del libro, corrispondenti alle cento interviste realizzate, riguardano tre tipi di abitanti transitori, provenienti da ogni parte del mondo: i migranti al primo approdo (arrivati a Milano in un tempo compreso tra pochi giorni e un anno); migranti arrivati da oltre un anno, per i quali il primo approdo è una condizione appena superata; gli studenti di architettura e urbanistica giunti a Milano da meno di tre mesi. Costituiscono un materiale disponibile, la cui utilità non si è ancora esaurita.

Funzionano da dispositivi di conoscenza della città, permettono di ricostruire i luoghi vissuti dagli abitanti transitori, potrebbero essere spunti utili per progettare una città futura più accogliente.
All’immagine della città sradicata non si arriva alla fine della ricerca della Pezzoni, per le difficoltà di incasellare la complessità della città contemporanea. Si tratta di un’immagine non armonica e non comprensiva, sfaccettata e con all’interno elementi contrastanti, ma ritengo sia un obiettivo da perseguire. Da costruire a più voci e non delegare alle competenze del planner.

Questioni aperte
Il libro pone alcune questioni, attiva spunti su cui ragionare, spesso tra loro interconnessi. In particolare mi soffermerò su: fraintendimenti e forzature del metodo di Lynch; il ruolo del disegno; il ruolo del ricercatore (e del planner). Il metodo introdotto da Lynch in The image of the city è stato più volte reinterpretato dal 1960 ad oggi, spesso disattendendo lo scopo principale per cui era nato: rendere evidente ai progettisti la necessità di consultare coloro che vivono in un luogo.
«It seemed to many planners that there was a new tecnique [...] that allowed a designer to predict the public image of any existing city or new proposal. [...] There was no attempt to reach out to actual inhabitants. [...] Instead of opening a channel by which citizens might influence design, the new words became another means of distancing them from it» (Lynch 1985, p. 251).
Come ci ricorda Pezzoni, l’obiettivo di dar voce a chi finora è stato solo oggetto dei processi di piano è rispettato nel suo lavoro di ricerca. Attraverso le mappe si attua l’inclusione dell’altro, ma con delle differenze: «i cinque elementi dell’immagine non sono più come in Lynch un codice con cui il ricercatore esperto possa decifrare a posteriori i disegni degli abitanti, ma diventano gli strumenti di lavoro con cui il migrante può disporsi a interrogare la città» (p. 334). In questo procedimento, la mappa diventa strumento di dialogo paritario sulla città, annulla le differenze tra soggetti dotati di un sapere diverso.
D’altro canto, l’operazione di trasposizione del codice a cinque voci non è un’operazione semplice. C’è il rischio che qualcosa si perda nella traduzione, sia dal punto di vista della ridefinizione dei contenuti dei cinque elementi che della relazione tra ricercatore e migranti, in presenza o meno del mediatore culturale.
Se invertiamo l’ordine e partiamo dai cinque elementi come strumenti di lavoro per interrogare la città entrano in gioco le difficoltà di spiegarne il significato. Inoltre, la struttura guida dell’intervista costruita sulla base dei cinque elementi potrebbe ridurre il valore di terreno neutro che si viene a creare quando la domanda posta riguarda il racconto di una giornata o i movimenti più frequenti dell’abitante transitorio nella città.
Tirando i fili del ragionamento, si può discutere del fatto che la mappa sintetica della città sradicata, la mappa della città esplorata con gli occhi dell’altro, sia realizzabile con un’operazione di traduzione ex post da parte del ricercatore (e del planner) che ha la capacità di mettere insieme le informazioni sullo spazio urbano, di interpretare i luoghi e le storie connesse, di rendere discutibile la città e aprire il dialogo tra i suoi abitanti (‘l’urbanista transattivo’, Andriello 1997, pp. 19-20).
La Pezzoni insiste e ci fa riflettere sull’importanza del disegno come parte integrante dell’intervista e anche sul suo valore espressivo. Possiamo constatarlo sfogliando il repertorio delle cento mappe che ha raccolto con impegno, leggendo l’interpretazione dei cinque elementi con le immagini che fanno da controcampo al testo, seguendo i ragionamenti su come costruire la mappa del primo approdo, osservando quanto il libro sia curato come testo. D’altra parte lo stesso Lynch torna più volte sull’importanza del disegno, delle figure. In defence of pictures è il sottotitolo che originariamente aveva dato alla sua introduzione a Environmental Knowing in cui si pone l’accento sull’importanza dei disegni: «drawings have that valuable quality of being permanent records, easy to store and to recall, which communicate a big deal beyond their overt content [...]. Unstructured drawings (that is, ones which were structured by the person responding, rather than by the interviewer) have the further advantage, despite all their difficulties, of allowing the person to express something of his own way of viewing the world» (Lynch 1976, p. 235). Un’immagine parla più di cento parole. Continua a comunicare anche oltre l’occasione in cui è stata raccolta. Permette di esplorare la città vissuta dagli altri e fare spazio a una città di tutti.

Riferimenti Bibliografici
Andriello V. (1997), La forma dell’esperienza. Percorsi nella teoria urbanistica a partire da Kevin Lynch, FrancoAngeli, Milano.
Andriello V. (2002), “The image of the city 1960. La città vista attraverso gli occhi degli altri”, in Di Biagi P. (a cura di), I Classici dellʼurbanistica moderna, Donzelli, Roma, pp. 153-170.
Lynch K. (1960), The Image of the city, MIT Press, Cambridge MA. Lynch K. (1976), “Foreword to Environmental Knowing” in Banerjee T. and Southworth M., a cura di, (1990), City sense and city Design, MIT Press, Cambridge MA, pp. 233-238.
Lynch K. (1985), “Reconsidering The Image of the city” in Banerjee T. and Southworth M., a cura di, (1990), City sense and city Design, MIT Press, Cambridge MA, pp. 247-256.