Recensione
Marilia Piccone, Wuz, 15/11/2012

Mettere radici

Ma c'è ugualmente qualcosa che mi lascia ancora perplesso. Non esiste un solo quaderno con una qualunque traccia dei suoi sentimenti personali: insomma non c'è alcuna espressione di un'emozione o di una riflessione condotta con calma. Non un accenno alla sfera soggettiva, non una traccia della famiglia a Sanyu. In effetti i suoi quaderni non mi sono stati di alcun aiuto nella stesura di questo libro. In ciò c'è un vantaggio. Se Tao avesse riempito i suoi quaderni di informazioni su di sé e la sua famiglia, allora il mio romanzo sarebbe stato superfluo.

Ci sono epoche e avvenimenti caratterizzati da un loro linguaggio. Citando il poeta Yang Li, l'autore di Mettere radici, Han Dong, dice: “Il linguaggio è il mondo... Una caratteristica essenziale di parole (o epoche) misteriose e sconcertanti è che sono avvolte, e abbellite, da un linguaggio misterioso e sconcertante.” Le espressioni di questo mondo hanno un significato solo in un momento preciso e nel contesto in cui sono state coniate. È per questo che sarebbe necessario un dizionario dei vari termini: come ha fatto Victor Klemperer, scrivendo La lingua del terzo Reich per le fantasiose circonlocuzioni inventate dai nazisti, qualcuno dovrebbe pensare a scrivere un dizionario per quelle della Cina di Mao. Perché quanti tra i giovani sanno che cosa si intendeva per “RivCult dei dieci anni”, “giovane urbano”, “quadro esiliato” o “Glorioso esilio” o “Scuola Quadri 7 Maggio”?
Nel 1969 lo scrittore Tao Peiyi, il protagonista di Mettere radici, viene esiliato in campagna insieme alla sua famiglia – la moglie, il padre (Nonno Tao), la madre e il figlio Taotao di nove anni. Da Nanchino a Sanyu, vicino al lago d'acqua dolce Hongze. Da una bella abitazione di città ad una stalla fatta con mattoni di fango e paglia. Da un'attività intellettuale alla coltivazione dei campi. Ma sono proprio questi cambiamenti radicali che giustificano l'esilio, che diventa ‘glorioso' perché redime i borghesi intellettuali una volta che avranno imparato dai contadini a vivere la vera vita, quando si saranno ‘immersi' nella vita - il che significa sudare nei campi, sporcarsi le mani e fare a meno di quanto rende facile, comoda e ‘borghese' l'esistenza quotidiana. Ma lo scopo dell'esilio glorioso è duplice - non solo imparare dai contadini, anche ‘mettere radici' è importante. Mettere radici significa avere capito lo spirito dell'esilio, avere accettato la giustezza di quella che va intesa come una possibilità di salvezza e non una punizione, non desiderare più di tornare allo stile di vita di prima.
Il libro di Han Dong non trasforma in poesia la quotidianità della durezza dell'esilio, come fa il romanzo Balzac e la piccola sarta cinese di Dai Sijie, anzi, potrebbe sembrare di una piattezza sconcertante. Eppure la sua bellezza è proprio in questo: nel descrivere ogni dettaglio della nuova vita dei Tao, adottando diversi punti di osservazione che si focalizzano anche su diversi personaggi. Riesce così a raccontarci di come il piccolo Tao si fosse unito agli insulti delle Guardie Rosse nei confronti del padre (perché gli piaceva tutta quella furia iconoclasta), come i contadini si fossero rimirati esterrefatti nello specchio sull'anta dell'armadio che i Tao si erano portati da Nanchino, la moglie di Tao avesse imparato a curare con le erbe per mettersi al servizio del popolo, nonno Tao fosse perennemente costipato senza neppure potersi isolare per alleviare le sue viscere. Quanto a Tao, il famoso scrittore Tao, c'è in lui forse un orgoglio nascosto nell'essere in grado - proprio perché istruito e convinto che tutto si può imparare sui libri - di avere dei risultati di gran lunga migliori di quelli dei contadini del posto, nella coltivazione dei campi. Eppure, con una qualche giustificazione ufficiale, c'è in serbo una punizione per l'orgoglio di Tao - l'espulsione dal partito. Così come sua moglie sarà messa sotto indagine, accusata di affiliazione ad un gruppo controrivoluzionario: Su Qun confesserà, ma quanto è difficile confessare quando non si ha nulla da confessare! La parte finale del romanzo è interamente centrata su Tao scrittore e sulla triste conclusione della sua vita quando il peggio è passato, la famiglia è tornata a vivere a Nanchino e Taotao è all'università. Sono pagine interessantissime e molto belle perché, attraverso lo schermo del suo personaggio, è la scrittura stessa dell'autore Han Dong che trova qui la sua giustificazione. La produzione letteraria di Tao non era stata ampia e, soprattutto, si era dovuta adeguare alla massima “servire la politica”. Non esisteva l'arte per l'arte nella Cina di Mao. La poesia di alcune descrizioni lacustri (che Han Dong asserisce essere state fatte da Tao) affiora quasi suo malgrado. Prevale - nel romanzo di Han Dong così come nelle opere di Tao - una ironia gentile, così lieve da essere percepita solo dal lettore attento e sensibile. Così come solo una lettura accurata avverte la tristezza di questo romanzo celata sotto il voluto entusiasmo del volersi adeguare: i Tao hanno passato sei anni nel Glorioso Esilio, tesi nello sforzo di mettere radici. A che pro, alla fine?