Recensione
Giampiero Martinotti, la Repubblica, 01/04/2009

Khmer rossi, macchina di morte. Un film scuote la Cambogia

PARIGI – “La vita è stata per me un regalo sconcertante e la memoria è la sua terribile maledizione.” La tragica filosofia di Vann Nath si riflette nel suo sguardo perduto dietro le terribili immagini del passato. È uno dei rari sopravvissuti del genocidio cambogiano. Per quattro anni è stato detenuto in un centro di tortura, l'S-21, dove sono state sterminate 17mila persone. Ne sono usciti vivi solo in sette. Nath è uno di loro ed è diventato il personaggio chiave di un formidabile documentario sul genocidio: “S-21. La macchina di morte dei khmer rossi”, di Rithy Panh. Un film che ha collezionato i premi in Europa (compreso il prix Italia nel settembre scorso), che esce domani nelle sale cinematografiche francesi (dopo essere passato sulla tv franco-tedesca Arte) e che ha suscitato un'emozione senza precedenti in Cambogia proprio mentre si cerca, fra mille difficoltà di processare i responsabili dello sterminio. Perfino l'ex presidente Khieu Samphan, che ha sempre detto di non aver mai saputo niente dei massacri e continua a dichiararsi estraneo ai crimini del regime comunista, si è detto scosso: “La mia mente è confusa. Il mio pensiero sta cambiando dopo aver visto il film. Non pensavo che la gente venisse uccisa per aver rubato una patata per sopravvivere”.Phnom Penh, 1975-1979. Nel liceo Ponhea Yat, nel centro della città viene installata la prigione Tuol Sleng. Al suo interno si trova un ufficio, che dipende direttamente dal Comitato centrale, incaricato della “lotta ai nemici del Partito”, l'S-21. Il significato della sigla è ancora oggi incerto: forse S come sicurezza, 21 come secondo ufficio del numero uno, cioè del capo, Pol Pot. Oggi Tuol Sleng è sede di un museo del genocidio e Rithy Panh ha messo a confronto due vittime dell'S-21, Vann Nath e Chum Mey, e i loro carnefici, dal vice-capo dell'ufficio a chi, più banalmente, riempiva i registri con le “confessioni” estorte grazie alla tortura. Tre anni di lavoro per far emergere la memoria, le atrocità quotidiane, le urla dei torturati e gli incubi dei sopravvissuti.Nath, pittore, si è salvato grazie alla sua arte: i capi dell'S-21 gli facevano dipingere ritratti del despota Pol Pot; Mey è passato fisicamente indenne dal lager perché sapeva riparare le macchineda scrivere con le quali venivano consegnati alla storia i verbali. Davanti a un suo quadro, che riproduce le condizioni di una cella, Nath racconta il calvario quotidiano dei prigionieri e interrogai suoi aguzzini: "Voi che avete lavorato qui, vi considerate vittime?". “Certo tutti, senza eccezione. Se non avessimo obbedito, saremmo morti.” “Ma se voi siete vittime, cosa sono i prigionieri giustiziati?” incalza Nath. Non si recita, non è una ricostruzione hollywoodiana. Ma il regista ha un'idea geniale: chiede a vittime e carnefici di rieseguire i gesti e gli spostamenti quotidiani. E i loro corpi ritrovano senza difficoltà la memoria di quegli anni terribili. Il quadro di Nath diventa di colpo reale: l'ex secondino Poeuv, che aveva tredici anni, entra nelle celle, insulta i prigionieri e infligge loro piccole angherie, che nell'universo concentrazionario erano enormi. Il pittore ha 56 anni, i suoi carnefici una quarantina. All'epoca del genocidio erano adolescenti. Il loro confronto è spesso drammatico. Alcuni verbali conservati nel museo sono veri e propri atti di accusa per gli  sgherri dell'S-21. La loro progressiva disumanizzazione diventa una realtà sotto gli occhi deglispettatori: la necessità di estorcere confessioni per giustificare la condanna capitale, la cieca obbedienza agli ordini del partito (“mi dicevano è un nemico, io dicevo: è un nemico”). Nath, con una calma impressionante, costringe gli uomini dell'S-21 a riconoscere i fatti. Tutti, però, rifiutano di assumersi la responsabilità degli atti commessi. Secondo loro, non facevano che ubbidire.