Recensione
Anna Gallo, www.ilreporter.com,, 26/05/2008

Recensione

Questo libro è la storia di una resistenza. Presenta un anno e mezzo di vita di un gruppo di prostitute «salariate», che sono alloggiate dalla loro tenutaria nel Building bianco, un decadente edificio nel cuore della capitale, Phnom Penh” (p.9).  Ragazze che vivono in un appartamento squallido. Valige come armadi. Stuoie come letti. La sera si vestono. Pantaloni attillati e top sexy. Prendono un motodop e vanno a “vendere le arance”. Aspettano. Mentre Dy, il procacciatore di buona famiglia che colleziona bambole, contratta con i clienti. Le ragazze hanno paura. Uccise, tagliate a pezzi. I pezzi nascosti dentro un materasso. Nessuno che reclami il cadavere. Hanno paura. Perché a loro può capitare di tutto. Clienti violenti. Stupri di gruppo. Mariti tossicomani. Fidanzati spacciatori. Mariti infanticidi. Fidanzati giocatori d'azzardo. Protettori che le picchiano. Le ingannano, aumentando sempre l'ammontare dei loro debiti. Contratti per abortire. Per mantenere la famiglia. Per curarsi. Ma trovano la forza di continuare. Aiutate dal mâ, un'anfetamina. E dimentiche di sé. Annullate. “Se non fumo, non posso lavorare. [...] Quando fumo il mâ, capisco che non serve a niente, ma se non fumo mi mancano le forze, non riesco ad andare a lavorare. Il che significa che in effetti mi prostituisco per il mâ. Devo andare avanti così per il resto dei miei giorni?” (p. 176). Lo dice Da, una prostituta del Building Bianco. Ma lei non è come le altre. Per lei sarà possibile un futuro. Perché lei sa che “la giustizia è sempre dalla parte dei ricchi e dei potenti. E noi, i poveri, ci si aspetta sempre che siamo colpevoli. Siamo ignoranti, è colpa nostra. Vendiamo il nostro corpo per nutrire la famiglia, è colpa nostra. Abbiamo l'AIDS e moriremo, anche questa è colpa nostra. Tutto è colpa nostra. I poveri possono solo aspettarsi di essere colpevoli” (p. 223). Un libro che dà spazio alle vicende dei singoli. E non trascura di abbozzare il quadro storico attraverso un ricco apparato di note a piè di pagina. Un libro da leggere perché “la parola non serve solo a testimoniare, ma anche a curare le ferite. La parola riempie il vuoto devastante in fondo a se stessi, cuce i brandelli dei ricordi, ridà vita a un tempo sospeso” (p.15). Rithy Panh e Louise Lorentz, La carta non può avvolgere la brace, O barra O (22€).