Recensione
Francesca Lancini, east, 02/02/2009

Panh: faccio il regista per dirmi che sono vivo

“Sono diventato regista per non soccombere al dolore. Solo quando mi hanno chiamato al festival di Cannes e agli Oscar, ho capito che ero davvero sopravvissuto all'adolescenza trascorsa in un campo di lavoro dei Khmer Rossi. Ero diventato capace di creare qualcosa, malgrado l'esperienza sconvolgente del genocidio.” A questa amara confessione, Rithy Panh, il regista cambogiano più famoso al mondo, reticente alle interviste, arriva dopo molte domande, sottintesi, frasi lasciate a metà. Seduto in un chiostro dell'ultimo Festivaletteratura di Mantova, tiene a lungo le braccia conserte e parla quasi sottovoce, ma lo sguardo fisso svela, prima di quanto faranno poi le parole, tutta la forza del popolo khmer e l'orrore della tragedia che da trent'anni lo sconvolge. Durante il regime dei Khmer Rossi i guerriglieri comunisti che hanno ridotto la Cambogia a un campo di concentramento fra il 1975 e il '79 - l'autore cambogiano ha perso diversi famigliari e, rimasto solo con la sorella, è scappato in un campo profughi tailandese. Oggi non vuole o forse non può dire della rocambolesca fuga che l'ha portato in Francia. Sappiamo solo che dopo poco tempo è riuscito a ricongiungersi con due fratelli e si è appassionato a diverse forme espressive, cinema, scrittura, pittura. Negli anni Ottanta ha realizzato il suo primo documentario, che raccontava la vita dei rifugiati cambogiani in Thailandia, un tema, quello della guerra e della devastazione prodotta dai Khmer Rossi, che farà da filo conduttore a tutte le sue opere. Anche in La carta non può avvolgere la brace, il suo ultimo documentario uscito con il libro omonimo, edito in Italia da O barra O, le storie delle prostitute di Phnom Penh non sono slegate dalla storia recente del Paese: “La guerra e il genocidio, oltre a causare morti e distruzione, hanno frantumato la coesione sociale” spiega l'artista. Per questo negli ultimi vent'anni l'obiettivo primario dei suoi documentari e dei suoi libri, è stato di recuperare la memoria storica perduta. Dopo almeno un milione e 700mila morti, massacri che hanno falciato la classe intellettuale del Paese, adesso a Panh non resta che  ricomporre i frammenti uno ad uno.Che cosa significa il titolo del suo ultimo libro e documentario, La carta non può avvolgere la brace?La ragazza che dice questa frase intende che se tenta di nascondere il suo dolore e la sua vergogna, non riesce a farlo. Non può far finta di non essere una prostituta. Niente può coprire la decadenza del suo corpo e della sua anima. Con questa consapevolezza le ragazze hanno accettato di raccontarsi e farsi filmare da me. È stato un atto di coraggio.È stato difficile entrare nel "Building bianco", il dedalo di stanze in mano agli sfruttatori?È stato più semplice di quanto si pensi. Le persone si fidano di te, se sei sincero con loro. Tutti hanno capito che non ero andato lì per voyeurismo, per fare uno scoop o rivelare cose sordide. Gli sfruttatori non sono mai stati ripresi, se non erano d'accordo. Le ragazze si sono rese conto che il mio lavoro voleva dar loro voce. Potevano finalmente prendere la parola. Le prostitute cambogiane a volte vivono in condizioni ancora più dure di quelle in Occidente, che vengono dall'Est Europa e dall'Africa. Sono trattate come dei rifiuti della società. Le famiglie spesso le rinnegano. Raccontarsi per loro è stato un modo di ritornare in vita, nonostante la morte giornaliera cui erano sottoposte, vendendo il loro corpo.Lei è rimasto con loro diciotto mesi, un tempo molto lungo per un documentario. Perché?Perchè era indispensabile. In media i documentaristi finiscono il loro lavoro in due settimane, ma io impiego anche due anni. È il tempo necessario per un lavoro di immersione, in cui si entra completamente nella realtà altrui. Quando faccio un film o scrivo un reportage, ciò che mi interessa di più è stare con l'altro e non tanto la produzione effettiva di un'opera. L'aspetto umano è più importante. Ai miei collaboratori, per esempio, insegno a non usare troppo lo zoom. Devono stare più vicini possibile alle persone che filmano, fisicamente e moralmente.Che tipo di donne ha incontrato nel "Building bianco"?Ho conosciuto delle "resistenti", per le quali ogni giorno è una battaglia. Combattono per la dignità e per proteggere il loro status di donne. Io sono entrato nel Building pensando quale destino, caso, infelicità, meccanismo, possa ridurre un essere umano in questo stato. Per capire una società bisogna studiarne i dettagli. Come chi studia l'economia, la politica, la salute, io mi interesso al dettaglio della condizione umana.Che risposte si e dato dopo aver finito questo film?Il mio lavoro consiste più nel porre domande che nel fornire risposte. Non ho mai risposte definitive, per tutti, ma solo individuali, per me stesso, che influenzano e determinano il mio modo di vivere. Desidero che gli spettatori e i lettori trovino da soli le loro risposte agli interrogativi che un mio film o un mio libro possono far nascere.L'universo attuale delle prostitute cambogiane e una conseguenza della storia tragica del vostro Paese (guerra d'lndocina, regime dei Khmer Rossi, instabilità degli ultimi anni)?La storia recente della Cambogia è una delle cause della presenza oggi di almeno 30mila prostitute, ma non la sola. Una ragazza del documentario si chiede: “Se non ci fossero stati la guerra e i Khmer Rossi a distruggere il Paese, forse oggi non sarei una prostituta?”.È una domanda legittima, perchè la guerra e il genocidio, oltre a causare morti e distruzione, hanno frantumato la coesione sociale e destrutturato completamente la società. Se i genitori delle prostitute non fossero stati rifugiati e sfollati, cacciati dalle loro terre, le loro bambine non sarebbero andate a prostituirsi.Qual e il suo ricordo più vivo del tempo dei Khmer Rossi?Ci sono più ricordi che affollano la mia mente, una sensazione che permane, un dolore che non è mai diminuito. Tutte le persone che come me hanno vissuto un genocidio sono state come colpite da radiazioni che sono arrivate fino alle viscere. Non ho un ricordo preciso per spiegare il genocidio, ma una sorta di insieme. Si può tentare di trovare le parole adatte per raccontare un genocidio, ma non si riuscirà mai a farlo del tutto. Percepisco un divario fra me e gli altri. Io parlo di due milioni di morti e per loro è solo un numero, non corrisponde a due milioni di esistenze diverse. Al tempo del regime dei Khmer Rossi non ero né troppo giovane né troppo vecchio, ma adolescente: il periodo della vita in cui tutto si ferma nella memoria in modo indelebile e in cui si apprende a essere uomini. Conservo, perciò, tutti insieme i traumi di quella tragedia, senza riuscire a venirne a capo. Cos'ha provato quando nel 1994 il suo film Rice People e stato accettato fra i film in concorso a Cannes e agli Oscar?È stato bellissimo. Ho sentito che ero vivo e che non mi stavo facendo distruggere dal dolore. Non potevo più riavere la mia vita di un tempo, ma ero diventato capace di fare un film, di scrivere, di dialogare con altri popoli e civiltà.Che cos'è per lei la memoria? La mia storia, quella dei miei cari e del mio Paese. Un essere umano senza memoria è perduto.La Cambogia non ha ancora fatto i conti con il suo passato. Alcuni politici sono ex Khmer Rossi, come il premier Hun Sen. Il suo Paese sta vivendo un'amnesia?La situazione è molto più grave. Oggi in Cambogia non ci sono quasi più scrittori, storici, sociologi, registi. La maggior parte degli intellettuali, depositari della cultura e della memoria, sono stati uccisi dai Khmer Rossi. Bastava portare gli occhiali o sapere una lingua diversa dal khmer per essere eliminati. Serve un lavoro di restaurazione della memoria. Il processo ai Khmer Rossi, sebbene sia arrivato con trent'anni di ritardo e stia giudicando solo pochi anziani di regime, può essere utile a questo scopo?Sì. Nonostante sia una forma embrionale di giustizia, è meglio di niente e aiuta la ricostruzione della memoria. Il lavoro di recupero, tuttavia, è più complicato. I cineasti, per esempio, dovrebbero aiutare la giustizia, occupandosi del genocidio e fornendo delle testimonianze, come io ho cercato di fare con il documentario S21 - La macchina di morte dei Khmer Rossi.Nel suo ultimo libro-film si parla molto del concetto buddhista di karma, principio di azione-reazione che regola ogni vita. È vero che i cambogiani per curare le ferite preferiscono l'oblio al ricordo?Non sono d'accordo. La memoria ormai è un valore universale, in Occidente e in Oriente. In Cambogia la giustizia non è contrapposta alla religione e viceversa. Il karma non spinge a rassegnarsi, come si dice, ma a comportarsi bene per una vita migliore. La Carta dei diritti umani è stata scritta in Francia, ma ormai è riconosciuta in tutto il pianeta, al di là delle politiche dei governi. Né la religione né la cultura hanno portato ai genocidi, ma la politica e l'ideologia. In concreto, nel suo lavoro sulla memoria, cosa si propone di fare con Bophana, il centro audiovisivo che ha di recente aperto a Phnom Penh?Desideravo che le nuove generazioni cambogiane avessero accesso alla memoria, attraverso scritti, video, foto. Solo quando si ha la possibilità di vedere delle opere audiovisive se ne possono produrre altre. È un circolo virtuoso. Bhopana è aperto a tutti: ai ragazzi che possono seguire corsi di regia, sceneggiatura, montaggio, audio, e alla gente comune che entra a scoprire o a recuperare la sua storia. Un pubblico che raddoppia ogni mese da un anno a questa parte e che ha raggiunto le 15mila consultazioni.C'è qualche artista che l'ha ispirata di più nel suo lavoro e che prende ad esempio per il suo insegnamento a Bhopana?Traggo ispirazione da ogni cosa che vedo: da un contadino delle risaie, per la vita che comunica, ai film del maestro del neorealismo italiano Roberto Rossellini, per la sincerità l'intelligenza, la forza e il rigore.